Questo articolo è ripreso integralmente dal numero 3/2021 di Rivista Solidea, pubblicazione curata dall’omonima Società di Mutuo Soccorso del Sociale e dedicata ai temi del lavoro, del welfare e della mutualità. È parte del network di Secondo Welfare.


Il fatto che, secondo l’Istat, in Italia più di 50.000 persone siano prive di un’abitazione stabile, sicura e degna di tale nome, pone gravi interrogativi circa l’effettivo esercizio del diritto di cittadinanza da parte di tutti. Si tratta dei cosiddetti “senzatetto”, oppure homeless, termini che non usiamo volentieri perché riducono ad un’etichetta imposta socialmente una situazione esistenziale complessa e diversificata.

Va subito precisato che il diritto all’abitare non si risolve solo con quattro mura e un tetto sulla testa. Oltre a chi vive letteralmente “in strada” (portici, ponti, giardini, panchine), sono considerati “senza dimora” anche gli ospiti di strutture di accoglienza e comunità (quindi provvisoriamente), le persone senza casa dimesse dal carcere o da strutture sanitarie, le coabitazioni forzate o di ospitalità precaria da amici e parenti; e inoltre chi vive in strutture improprie (roulotte, baracche), ma anche cittadine/i a rischio di violenza domestica, o in gravi situazioni di sovraffollamento (si veda per la definizione di homelessness la classificazione ETHOS).

Non basta un tetto sopra la testa

Il diritto all’abitare non è solo avere un tetto sopra la testa. È ciò che solitamente diamo per scontato: avere un luogo sicuro da sentire come proprio, che definisca e consolidi un senso di appartenenza, che estenda l’identità personale a tutti gli oggetti di un’abitazione, l’arredamento, gli spazi dove tenere al sicuro tutto ciò che fa parte della propria esistenza, dai ricordi fino agli oggetti necessari alla vita quotidiana.

Inoltre, l’abitare è anche un segno di appartenenza sociale, un aspetto della propria identità affatto secondario, che rimanda alla condivisione di un quartiere, o un paese; quindi di un’identità sociale.

E possiamo avere una drammatica testimonianza di quanto “avere una casa” sia importante se osserviamo come le persone senza dimora (come convenzionalmente dobbiamo chiamarle) dopo un certo tempo sentono di appartenere ad un mondo separato, rispetto al mondo “normale”, dove tutti gli altri che vengono vissuti come sempre più estranei, distanti e diversi.

L’impegno per la sopravvivenza (mangiare, dormire, lavarsi, procurarsi denaro) diventa talmente pervasivo da assorbire ogni energia; le capacità e le risorse della vita “di prima” (perché quasi tutti hanno avuto un “prima” ben diverso) vengono accantonate e, al contrario, si sviluppano abilità nuove, diverse e inaspettate, per sopravvivere.

Abitare e identità

L’abitare – si vorrebbe dire abitare bene – è una componente essenziale della propria identità, della dignità di cittadinanza, un diritto fondamentale di ogni persona.

Così, del resto, proclama anche la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, quando all’art. 25 sottolinea che:

ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari.

Tali principi sono presenti anche nella nostra Costituzione. Anche se non incontriamo mai l’espressione esplicita “diritto alla casa”, ci sono tuttavia altri concetti forse ancora più pregnanti. Sempre il citatao art. 3 riporta:

 «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana»;

Mentre l’art. 2 sottolinea:

«la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, (…) e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

Sottolineiamo il dovere di solidarietà, sul quale torneremo più avanti.

E ricordiamo anche l’art. 36, per il suo spessore, quando ricorda che

«il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro», il che comporta che essa debba essere «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Dunque alla nostra Repubblica interessa che i cittadini abbiano una vita dignitosa, considerata pertanto parte essenziale dei diritti di cittadinanza.

Opportunanda: sperimentare sempre strade nuove

Il problema, insomma, è veramente enorme e rimanda a contraddizioni economiche e sociali con profonde implicazioni. Ma la complessità non può lasciarci indifferenti, come cittadine e cittadini facenti parte di una Repubblica che, come ricordavamo sopra, «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2 Cost.).

Per questo, ci siamo messi in gioco e abbiamo costituito l’Associazione Opportunanda, con la precisa consapevolezza che essa non potrà risolvere problemi di questa portata.

Evidentemente l’associazione non ha alcuna intenzione di sostituirsi alle funzioni pubbliche ma, nel portare sollievo a chi è stato escluso da una vita dignitosa, intende sollecitare la necessità di politiche adeguate da parte pubblica.

Davanti al gigantesco problema abitativo, la funzione del volontariato può essere quella di indicare e sperimentare con flessibilità e creatività strade nuove.

Strade possibili per l’abitare bene

Così, ad esempio, aveva fatto la nostra Associazione anni fa sperimentando i primi alloggi di convivenza per Persone Senza Dimora, in normali condomìni, al posto dei dormitori che sono ghettizzanti e non rispondono ai bisogni.

Questo per dimostrare come fosse possibile un’accoglienza che non fosse passiva, ma che provasse a considerare le persone non solo come prive di qualcosa, la casa, ma come portatrici di diritti, esperienze e competenze come tutti gli altri cittadini.

E va in questa direzione anche il Centro Diurno che gestiamo da 20 anni nel cuore di San Salvario come un luogo di sollievo dalla vita in strada, ma anche punto di partenza per iniziare percorsi di riscatto in un clima di accoglienza e fiducia. Una modalità nuova di accoglienza attenta ai percorsi delle persone, sostenuta dal Comune in termini economici, ma non ancora fatta propria come servizio pubblico.

In questo contesto, è importante ricordare che da alcuni anni in Europa, e anche a Torino, si sta sperimentando la modalità detta housing first, cioè la messa a disposizione prima di tutto di un’abitazione. È questa un’alternativa, cioè, al modello assistenziale “a gradini” che al vivere in strada propone (quando c’è posto) il dormitorio, poi quello di secondo livello, o una comunità, lasciando per ultima l’assegnazione di una casa.

Le idee quindi ci sono, ma bisogna realizzarle, facendosi guidare dalla consapevolezza che la strada per realizzare una società nella quale tutti possano abitare bene passa dal riconoscimento dei diritti fondamentali di cittadinanza per tutte e tutti, diritti che la società non è riuscita a garantire.

Bisogna avere il coraggio di capovolgere la narrazione della povertà estrema: non più persone “colpevoli di povertà”, ma una società responsabile di un’iniqua distribuzione delle ricchezze e di case, che ci sono, ma alle quali per molti è precluso l’accesso.