15 ' di lettura
Salva pagina in PDF

Gli spazi fisici rigenerati e destinati a nuove attività e progetti di interesse collettivo si configurano come infrastrutture sociali di nuova generazione in grado di costruire comunità intenzionali aperte e inclusive. L’innovazione sociale che trasforma spazi in luoghi si distingue dalla cosiddetta "stagione dei diritti" che ha caratterizzato la nascita del welfare sociale negli anni Settanta. Ne parlano Paolo Venturi e Flaviano Zandonai in questo contributo uscito nel numero 4/2019 di Welfare Oggi.


Nell’ultimo decennio l’innovazione sociale ha trovato un importante campo di applicazione nella rigenerazione di spazi fisici da destinare a nuove attività e progetti di interesse collettivo
. Una molteplicità di iniziative – sorte presso beni confiscati, ex aree industriali, edifici pubblici in disuso, strutture di enti religiosi e organizzazioni non-profit, ecc. – che è ancora alla ricerca di una strategia comune, ma che comunque vive una fase di maturità che va oltre la sperimentazione, impattando in maniera sempre più evidente su diversi settori di attività e mercati, sui sistemi di regolazione istituzionale e, non da ultimo, sui comportamenti di persone, famiglie e comunità locali. La presenza di uno spazio rigenerato, nei contesti urbani ma non solo, rappresenta infatti una infrastruttura sociale di nuova generazione che può fare la differenza in termini di qualità della vita, ma anche di sviluppo economico e politico culturale. Ai processi che trasformano spazi spesso abbandonati o sottoutilizzati in luoghi dove la densità delle relazioni intenzionalmente alimentata genera comunità intraprendenti aperte e inclusive abbiamo dedicato un libro – “Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società” – che peraltro si affianca ad altre recenti pubblicazioni come, tra le altre, il volume “Spazi fuori dal comune” di Elena Ostanel, la raccolta di esperienze “Il ritorno a casa degli Ulissi” curata da Luca Bizzarri, il quaderno di Fondazione Cariplo “Prendiamoci un caffè” realizzato da Massimo Conte e Stefano Laffi; per non parlare poi di altri supporti come la mostra “New Urban Body” su esperienze di rigenerazione urbana realizzata da Fondazione Housing Sociale. Tutto ciò costituisce un’ulteriore conferma della rilevanza assunta dalla dimensione di luogo e dai relativi processi di riattivazione e di manutenzione e quindi della necessità di costruire intorno ad essa una conoscenza che sia in grado di svelarne il carattere generativo, consentendo così un più efficace supporto e accompagnamento, oltre che migliorare la capacità di ingaggio di cittadini attivi, comunità, istituzioni, imprese, ecc.

Con questo contributo vorremmo approfondire un particolare aspetto del “dove”, ovvero il rapporto tra welfare e dimensione di luogo alla luce degli apprendimenti che derivano da questa nuova ondata di innovazione sociale. Si tratta, per certi versi, di un ritorno sul “luogo del delitto” in quanto il welfare, in particolare nella sua declinazione sociale, prende forma in contesti locali. D’altro canto, proprio questa radice comune del localismo ci ha stimolato a individuare nei punti seguenti gli elementi che oggi contribuiscono a qualificare e distinguere i processi attuali rispetto a quanto realizzato negli ultimi decenni. Si tratta di modalità operative che, come si avrà modo di verificare, chiamano in causa non solo innovazioni incrementali che cesellano un impianto già definito, ma anche nuovi approcci alla costruzione delle politiche sociali e alle modalità di progettazione e di produzione dei servizi, fino a toccare il disegno organizzativo, gli assetti di governance e i ruoli dei diversi attori che operano nel campo del welfare sociale.


Un approccio community centered alla coprogettazione

Un primo elemento che deriva dal “passaggio di stato” da spazi a luoghi riguarda la possibilità di arricchire le pratiche della coprogettazione nel welfare che oggi appaiono polarizzate intorno a due dimensioni principali. Da una parte le modalità basate sul “dialogo sociale” tra attori istituzionali pubblici e non-profit secondo quanto sancito anche dalla riforma del terzo settore, che su questa rivista hanno trovato ampio spazio di analisi e di approfondimento. Dall’altra si collocano approcci e strumenti del design dei servizi di welfare “user centered”, basati cioè sulla partecipazione attiva dei beneficiari diretti e indiretti attraverso modalità di empowerment dei loro bisogni e delle loro aspirazioni e di coinvolgimento nella produzione delle risposte (coproduzione).

Nel campo della rigenerazione sociale si assiste però a un utilizzo diffuso di pratiche di coprogettazione che fanno leva su una ulteriore “interfaccia” che è parzialmente diversa sia rispetto agli addetti ai lavori che operano sul versante della produzione dei servizi di welfare, sia rispetto a coloro che usufruiscono di queste stesse prestazioni. In questo campo, infatti, sono più frequentemente visibili progettazioni condivise basate su comunità ibride caratterizzate dalla compresenza di abitatori dei luoghi che contribuiscono a tessere relazioni naturali di prossimità e nuovi attori che, a seconda dei casi, ripristinano e/o potenziano “artificialmente” la stessa tessitura: operatori culturali, attivisti, nuovi abitanti o abitanti temporanei, ecc.

La costruzione di queste comunità intenzionali intorno a operazioni di riuso e di rigenerazione rappresenta una componente cruciale e insieme critica a livello progettuale. Sono questi organismi infatti che contribuiscono a costruire il palinsesto di attività e iniziative che riattiva gli spazi individuando nuove forme d’uso e, al tempo stesso, agiscono come intelligenza collettiva in grado di cogenerare significati rispetto al carattere autenticamente “pubblico” e di “interesse collettivo”, che riguarda non solo lo spazio in sé ma anche lo stesso processo di rigenerazione.

Si tratta di una acquisizione importante, anche nel campo del welfare sociale, perché un approccio “community centered” alla coprogettazione si configura come un’innovazione di processo strutturale e non estemporanea del fare welfare e, così facendo, attenua alcuni rischi insiti negli altri due modelli. La coprogettazione basata su “tavoli” tecnici tra specialisti rischia infatti di essere vittima della dipendenza dal percorso rispetto a pratiche routinarie e norme tecniche, generando un assetto da club poco permeabile alle sollecitazioni del contesto. Invece negli approcci centrati sull’utente il rischio è di privilegiare beneficiari in possesso di maggiori capacità in termini di rappresentazione dei bisogni e di organizzazione e gestione delle attività di servizio; capacità che possono essere sia individuali, sia mediate attraverso le loro associazioni di tutela. Ma l’enfasi sulla capacità di advocacy come criterio di accesso, anche involontario, alla coprogettazione può rischiare di lasciare ai margini aree grigie di “nuova vulnerabilità” che presentano deficit non solo in termini di risorse economiche, ma soprattutto relazionali anche per quanto riguarda la capacità di decodificare le necessità e di costruire le soluzioni agendo in contesti partecipati dove è richiesto di mobilitare risorse proprie. Un caso interessante in tal senso riguarda le pratiche di “potenziamento progettuale” delle comunità di abitanti che si formano nell’ambito di progetti di social housing, soprattutto se questi ultimi prestano attenzione non solo alla disposizione negli spazi abitativi, ma anche al contesto circostante come emerge, ad esempio, dalla pubblicazione “Cambiare l’abitare cooperando” curata da Giordana Ferri, Rossana Zaccaria e Angela Pavesi.


Un modello di welfare a base culturale

La cultura – intesa come produzione culturale e valorizzazione di beni e attrattori culturali – rappresenta un importante elemento di innesco, ma anche di mantenimento e di durabilità dei processi di rigenerazione sociale. Non a caso importanti call innovazione sociale come “Culturability” hanno incrociato proprio queste dimensioni. E gli stessi ingredienti si possono rintracciare anche all’interno di un bando pubblico come “Cultura futuro urbano” recentemente lanciato dal Ministero per i beni e le attività culturali. Quasi un meccanismo di apprendimento istituzionale – non è dato sapere quanto intenzionale – da parte della Pubblica Amministrazione rispetto a innovazioni sociali pionieristiche agite attraverso risorse venture di natura filantropica mobilitate da iniziative private.

La disponibilità di competenze non solo di produzione e tutela, ma anche di management culturale rappresenta un’ulteriore sollecitazione per il welfare che si trovasse ad incrociare processi di rigenerazione. In questi ambiti infatti possono ri-prendere forma modelli di welfare a base culturale dove quest’ultima componente non si limita a rappresentare, come sostengono autorevoli osservatori come Catterina Seia di fondazione Fitzcarraldo, un fattore di “beautyfication” dei servizi sociali, grazie a inserimenti di artefatti culturali con funzioni di allestimento materiale, come è ben realizzato nel progetto di abitazione sociale “Housing Giulia” a Torino. La rigenerazione che investe sulla ridefinizione degli schemi di relazione tra attori diversi – ovvero il principale ingrediente della social innovation – e su nuove funzioni d’uso di spazi per finalità pubbliche postula che la cultura diventi parte integrante del “codice sorgente” del welfare, agendo principalmente la leva dell’attivazione e dell’ingaggio degli attori, oltre a proporre, e non solo sperimentare, modelli di servizio di cura, educazione, inclusione che siano, se non alternativi, almeno solidamente complementari rispetto agli approcci fin qui dominanti.

In questo senso il welfare culturale che emerge dalla dimensione di luogo può svolgere un ruolo di riequilibrio o di inversione rispetto alle macro-tendenze che attualmente monopolizzano il campo del sociale come ad esempio la sanitarizzazione dei servizi assistenziali, l’approccio più formativo che educativo alle competenze, l’inclusione lavorativa realizzata attraverso attività a basso valore aggiunto in termini di creatività e di autonomia. Un quadro di esperienze ben rappresentato, sia nella sua pluralità che nella sua consistenza, dall’indagine sulle pratiche di welfare culturale realizzata da “Il giornale delle fondazioni” da cui emerge un uso sempre più costitutivo e non solo strumentale della cultura, interrogando così alla radice i modelli di servizio ed economici del welfare.


Un approccio alla trasformazione digitale

Seppur con modalità e livelli di intensità differenti anche nel welfare è in corso un cambiamento legato alla digital transformation.La punta più avanzata di questo percorso è rappresentata con tutta probabilità dal welfare aziendale, le cui prestazioni vengono intermediate attraverso un numero crescente di piattaforme digitali. In questi (relativamente) nuovi ambienti socio-tecnologici si rilevano, tra le altre, due tendenze principali.

La prima consiste nell’allungamento e nella differenziazione della filiera di servizi, ricomprendendo un gran numero di prestazioni non strettamente riconducibili a quella componente definita di “welfare nobile” da osservatori come Lorenzo Bandera di Percorsi di secondo welfare: ovvero servizi socioassistenziali, educativi e sanitari che rappresentano, appunto, gli interventi di protezione sociale più tipici ed affermati nel campo delle politiche sociali tradizionali. Nelle piattaforme di welfare aziendale – e invero anche in altri “contenitori” simili – si nota invece la consistente presenza di servizi di facilitazione della vita quotidiana (palestre, lavanderie e altri servizi da “maggiordomo”) e di supporto economico (voucher e sconti) che tendono a spiazzare gli specialisti del settore e, in molti casi, a fagocitare la domanda verso questa tipologia di beni.

La seconda tendenza riguarda l’impostazione di fondo delle piattaforme digitali di welfare perché in molti casi si tratta di marketplace, ovvero di ambienti dove lo scambio avviene esclusivamente in regime di mercato e secondo modalità di produzione e consumo piuttosto tradizionali basate su beni e servizi “finiti” e “prezzati” con poco margine quindi rispetto a elementi di codesign o di coproduzione. Naturalmente questa impostazione non è di per sé giusta o sbagliata, ma è certamente limitante in quanto non sembra saper cogliere elementi di innovazione che sono rinvenibili sia nelle infrastrutture (e nella cultura) digitali, sia nei servizi sociali. Uno degli elementi “filosofici” della trasformazione digitale (o almeno uno di essi), consiste infatti nel carattere condiviso e disintermediato attraverso gli scambi tra pari del modello di produzione e consumo. Certamente la dimensione sharing e peer to peer è molto ambivalente e soggetta a fenomeni di isomorfismo da parte di modelli di business basati più sull’estrazione che sulla condivisione del valore. Però è quantomeno curioso osservare che non se ne rilevi (ancora) traccia significativa in un contesto come quello del welfare sociale dove la dimensione “pubblica” e di “interesse collettivo” potrebbe “abilitare”, come si afferma di frequente nel campo della sharing economy, modelli di produzione e consumo basati sull’ibridazione dei ruoli (ad esempio tra produttore e consumatore) e dei meccanismi di scambio (ad esempio reintroducendo forme di reciprocità e di apporti volontari per rendere i servizi al tempo stesso più accessibili e più ricchi in termini di qualità relazionale).

La dimensione di luogo, da questo punto di vista, può giocare un ruolo importante in qualità di densificatore delle reti di servizi sociali digitali come dimostra il fiorire di “welfare point” territoriali accanto alle piattaforme digitali più evolute come TreCuori con base nel padovano ma in espansione nel territorio nazionale, Wemi a Milano, Jointly a Tradate. I luoghi fisici rappresentano non tanto un mero “contraltare analogico”, ma piuttosto una componente strutturale del modello di piattaforma dove è possibile ricomporre un pluriverso di prestazioni in un’offerta condivisa di beni di relazione. I luoghi fisici del welfare si costituiscono infatti intorno a una dimensione fondante che è quella dello hub. Un fulcro che non rappresenta né uno sbocco (centro servizi) né una porta di accesso (punto informativo), ma piuttosto un luogo di transito nel quale è possibile costruire e ricostruire percorsi individuali e ancora più collettivi di protezione sociale. A fare la differenza, come ricorda la designer dei servizi Daniela Selloni nel suo libro “CoDesign for Public-Interest Services”, è la qualità dell’allestimento dei luoghi, intendendolo non solo in senso materiale, ma anche in termini di competenze che si fanno carico della principale sfida del welfare sociale oggi ovvero la ricomposizione di una pluralità di iniziative, risorse e apporti secondo una logica non di “efficientamento” e di “ottimizzazione” ma di creazione di valore.


Un modello di business per economie coesive

Anche per quanto riguarda la sostenibilità economica dei sistemi di welfare – un tema sempre più all’ordine del giorno per amministratori e dirigenti pubblici, imprenditori e manager di imprese sociali e di organizzazioni di terzo settore e, vale la pena di ribadirlo, per persone e famiglie – dai processi di rigenerazione sociale emergono interessanti apprendimenti.

Il primo, di ordine generale, riguarda l’impostazione più produttiva che redistributiva del modello economico. Se è vero infatti che risorse donative di origine pubblica e privata giocano un ruolo importante soprattutto nella fase di startup dei percorsi di rigenerazione, è altrettanto vero che queste stesse risorse sono fin dall’origine investite per l’avvio di produzioni di beni e servizi che possono trovare una sorta di “incubazione” all’interno di spazi polifunzionali e soprattutto densificati in termini relazionali. Mercati locali ed equo solidali, esercizi commerciali inclusivi, microimprese di servizi sono solo alcuni esempi di come si manifesta la generatività dei luoghi e, attraverso questa, la sostenibilità del loro modello.

Il secondo elemento di apprendimento riguarda invece la natura dei “mercati di sbocco” di queste produzioni che si caratterizza per la presenza di evidenti elementi di valore sociale come la prossimità delle unità economiche, l’accessibilità degli stessi beni e servizi, la dimensione trasformativa che deriva dalle queste modalità di produzione e consumo. Un meccanismo ben visibile, ad esempio, nell’emporio di comunità Camilla di Bologna dove l’accesso a prodotti “buoni, puliti e giusti”, secondo la definizione di Carlin Petrini fondatore di Slow Food, avviene attraverso la rigenerazione del tradizionale scambio mutualistico tra soci, i quali apportano risorse (tempo e lavoro) e in cambio accedono a sconti sull’acquisto, oltre a partecipare alla governance della cooperativa e alle sue svariate iniziative di taglio educativo. In questo senso il welfare rappresenta, più che un bene in sé, la componente strutturale di una value chain che contribuisce a rendere effettivamente condiviso il valore prodotto e l’impatto positivo a livello di inclusione e coesione sociale. Il welfare della rigenerazione sociale agisce quindi spesso “sotto copertura”, incorporato cioè all’interno di svariate economie di luogo.

Questo meccanismo può contribuire, da una parte, a incrementare il valore economico in quanto reso più “sociale” e, dall’altra, consente al welfare di essere meglio distribuito e più accessibile nei contesti di vita quotidiana (a domicilio, nella portineria e nel bar di quartiere, in azienda, ecc.). Questa dislocazione del welfare come elemento di valore dell’economia di luogo richiede però di adottare una modalità radicalmente nuova di misurazione del valore che non può essere basata sulla mera rendicontazione della spesa sociale. Si tratta, in questo caso, di misurare effetti spillover, cioè di economie ulteriori, generati da questo nuovo modello di welfare “catturandone” il valore aggiunto al fine di essere adeguatamente redistribuito anche per finanziarne il lavoro di rete e di comunità che, in questo modello, appare decisamente più consistente e complesso rispetto alle tradizionali modalità di coordinamento tra attori pubblici e del terzo settore. Uno sforzo rilevante, ed efficace, in tal senso è quello compiuto dalla rete delle Case di quartiere di Torino che ha da poco pubblicato il suo primo report d’impatto sociale dal quale emerge “l’effetto alone” esercitato da queste infrastrutture sociali per lo sviluppo delle attività sociali, culturali ed economiche che si svolgono oltre il loro perimetro, investendo il quartiere dove risiedono e la città in generale.


Un vettore di cambiamento organizzativo

La trasformazione del modello economico si riflette, inevitabilmente, anche a livello organizzativo. Il campo della rigenerazione sociale può rappresentare, da questo punto di vista, un laboratorio per la costruzione di nuovi modelli di organizzazione-piattaforma. Questo contesto infatti sollecita i gestori dello spazio rigenerato – qualsiasi essi siano: pubblici, privati, nonprofit, informali e relative partnership – a trovare soluzioni nuove che consentano di gestire non solo una pluralità di attività, ma un insieme diversificato di economie e relativi modelli organizzativi.

Da questo punto di vista l’opzione di incorporare all’interno di un unico attore (o anche di una rete ristretta) l’insieme di iniziative appare limitante sia sotto il profilo dell’efficienza che dell’efficacia. In termini di efficienza significherebbe dotarsi di impianti gestionali e di competenze che rischierebbero di aumentare i costi di struttura e di rendere eccessivamente complessi e “pesanti” i processi produttivi. Ma anche in termini di efficacia l’opzione “make” appare in contrasto rispetto a quella funzione di abilitazione dell’economia e della socialità che viene fatta transitare all’interno dello spazio al fine sia di alimentare che di beneficiare della relazionalità intenzionalmente riattivata. L’opzione della piattaforma appare quasi uno sbocco necessario di strategie di change management, in quanto si basa su una dotazione di risorse materiali e immateriali finalizzate ad abilitare le progettualità di una pluralità di soggetti avendo come contropartita da essi apporti in termini di manutenzione dell’infrastruttura – tipicamente gli spazi – e di sviluppo delle competenze – tipicamente di community building – di cui possono usufruire. In questo senso le organizzazioni piattaforma della rigenerazione sociale sono spesso assimilabili a commons, ovvero a modelli di gestione e di governance che consentono un utilizzo sostenibile ed equo delle risorse: regolandone l’accesso, supportandone i processi di produzione / trasformazione, redistribuendone i benefici.

Si tratta di un’acquisizione importante anche al di fuori di questo particolare campo di sperimentazione. La crescente complessità dei servizi di welfare interroga infatti un numero crescente di soggetti gestori ponendoli di fronte alla scelta o di diversificare (ulteriormente) le loro attività, incrementando però i costi di coordinamento, o di adottare meccanismi tradizionali di outsourcing verso subfornitori (come già avviene nel rapporto tra Pubblica Amministrazione e terzo settore). L’opzione della piattaforma rappresenta, in tal senso, una soluzione intermedia che però richiede di costruire organizzazioni nuove oppure di intraprendere percorsi di cambiamento all’interno di imprese e istituzioni esistenti che potranno generare impatti profondi non solo nelle routine ma anche a livello di cultura organizzativa. Si tratta infatti di passare da organizzazioni orientate a sviluppare consistenti volumi di produzione a organizzazioni più “leggere” basate su asset infrastrutturali (portali e marketplace digitali) e/o intangibili (marchi e modelli di servizio) fruibili da parte di soggetti diversi che, sempre più numerosi, popolano la filiera del welfare e del più ampio terziario sociale.

Un caso interessante in tal senso è rappresentato dal progetto FamilyLike realizzato nell’ambito del bando “welfare in azione” di Fondazione Cariplo. Partito come un portale di segnalazione di eventi e servizi a misura di famiglia sta evolvendo verso un modello che consente agli attori locali di segnalare direttamente le proprie attività agendo un effetto leva di natura promozionale grazie alla massa critica di eventi e alla reputazione della piattaforma che contribuiscono ad alimentare.


Una rigenerazione del lavoro sociale

Community manager: potrebbe bastare questa qualifica (o altre similari) per restituire un importante mutamento di ruolo che scaturisce dai processi di rigenerazione della dimensione di luogo. In realtà potrebbe trattarsi di una specie di “ritorno al futuro” considerata la lunga e gloriosa tradizione del lavoro sociale come lavoro di comunità.

D’altro canto, non si possono non notare almeno due aspetti che appaiono in discontinuità rispetto a un semplice, seppur importante, orientamento a “rinverdire la tradizione”. Il primo consiste nella prevalenza assunta negli ultimi decenni da un approccio prestazionale al lavoro sociale, legato cioè all’erogazione di servizi specialistici rivolti a ben precise categorie di utenti, a discapito di un approccio centrato invece su processi di ritessitura e riattivazione dei contesti sociali. Il secondo elemento di discontinuità consiste nell’indebolimento del ruolo svolto dai tradizionali intermediari (partiti, chiese, associazioni di rappresentanza) che consentivano di creare le condizioni minime in termini di consenso e di legittimazione su cui innestare il servizio sociale. Un indebolimento favorito anche dalla disruption digitale che ha mutato in maniera consistente il modo in cui si creano “community” legate non a elementi di significato ancorati a matrici politico culturali, ma piuttosto basate su coalizioni di interessi individuali e aspirazioni temporanee che attraverso opportuni elementi di collante diventano “comuni”.

Da qui, ad esempio, la capacità di attivare e moderare le conversazioni digitali, di proporre call to action di breve periodo, di identificare elementi specifici di coesione che rappresentano il tipico modus operandi dei community manager digitali. Un approccio che peraltro è visibile, sempre più spesso, non solo in ambito “sociale” ma anche nei modelli di business aziendali tesi sempre più al community building come nuovo paradigma del marketing basato su elementi identitari e pratiche di coinvolgimento che vanno ben oltre lo scambio di beni e la relazione di servizio. Questi passaggi sono all’origine di un mutamento dei profili professionali che investe non solo le competenze hard del fare comunità, ma anche gli atteggiamenti e il commitment di coloro che sono in qualche modo “nativi” di questi nuovi contesti.

L’impressione – ma servirebbero dati di ricerca più solidi in tal senso – è che i nuovi community manager che emergono dalla rigenerazione sociale e dall’infosfera dei social network digitali costituiscano un’avanguardia generazionale caratterizzata non solo da capacità specifiche, ma anche da un approccio più pragmatico. Ciò è visibile, ad esempio, nell’utilizzo mirato della dimensione di advocacy – centrata più su campagne concrete che su richiami valoriali – e nella conseguente prevalenza della funzione di management comunitario, lavorando cioè sull’amalgama di azioni individuali intorno a elementi di interesse comune che emergono per approssimazioni successive. Da queste sperimentazioni potrebbero scaturire interessanti elementi di apprendimento anche per la ridefinizione in senso comunitario di professioni sociali consolidate come l’infermiere “di comunità”, il custode “sociale”, la badante “di condominio”, operatore sociale “di prossimità”, ecc. Una trasformazione che è già in atto grazie anche a iniziative come la Biennale della prossimità e che peraltro è visibile in altri campi come quello delle professioni legate alla progettazione spaziale e urbanistica che sono sempre più tese a promuovere e ad essere parte attiva di processi partecipati di riqualificazione come ben testimoniato dal master U-Rise promosso dall’università Iuav di Venezia.


Una nuova stagione di partecipazione sociale e politica

L’innovazione sociale che trasforma spazi in luoghi segna forse l’origine di un nuovo “ciclo societario” probabilmente diverso rispetto alla cosiddetta “stagione dei diritti” che dalla seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso ha costituito le fondamenta del welfare sociale così come ancora oggi è conosciuto, praticato e governato. Le differenze tra passato e presente sono visibili e al tempo stesso ambivalenti.

Da una parte l’attivismo che spinge oggi la rigenerazione sociale non sembra avere una rappresentanza così definita nei corpi intermedi e nella politica come invece è avvenuto, seppur con fasi alterne, considerando altre innovazioni sociali del passato. D’altro canto, nella fase attuale esistono più soggetti con i quali costruire processi di innovazione aperta: terzo settore, pubblica amministrazione locale, ma anche imprese sensibili, per svariate ragioni, a queste tematiche. E ancora, accanto a crescenti fenomeni di disgregazione e vulnerabilità sociale che faticano ad articolarsi in “piattaforme” basate su una capacità di rappresentazione e tutela, si segnalano iniziative che, in forme diverse, sono riuscite a fare crescere la loro innovazione. Si tratta, in particolare, di quella “normalità trasformativa” coniata dal designer Ezio Manzini, ovvero la capacità di mettere a regime pratiche individuali e collettive generando cambiamenti strutturali a livello economico sociale e politico, ad esempio nel campo della mobilità, dell’alimentazione, della cultura.

In questo senso una convergenza meno estemporanea tra welfare e rigenerazione sociale potrebbe aprire una prospettiva di autentico impatto sociale, in quanto, come ricorda ancora una volta la norma in materia di terzo settore, si tratta di trasformazioni positive e durature strettamente legate alla dimensione comunitaria. Elementi che, come si è cercato di argomentare, si riscontrano in modo consistente guardando proprio alla dimensione del “dove”.

Rimane, infine, il tema del policy making. A chi spetta, e su quali basi, il compito non solo di regolare, ma soprattutto di promuovere i fermenti di cambiamento legati alla rigenerazione sociale? Evitando di ricadere in un approccio da “assenza della politica” che è tanto reale quanto autolimitante, crediamo sia complesso ma non impossibile riallineare in chiave di politica gli apporti di almeno tre attori caratterizzati da una medesima propensione all’investimento sociale. Il primo è rappresentato dalle amministrazioni locali (cittadine, regionali e di “area vasta”) che in questi anni hanno assunto il rischio di stimolare questi processi, agendo sul crinale dell’innovazione regolamentare e normativa per quanto riguarda autorizzazioni, affidamenti, ecc. come nel caso dei patti di collaborazione per la cura dei beni comuni urbani o di più ampie politiche di sviluppo e coesione come i “Bollenti spiriti” della Regione Puglia. Il secondo attore da mobilitare in chiave di policy è rappresentato dalla filantropia che, anch’essa, ha investito su processi di innovazione sociale in grado di generare non solo singoli progetti ma ricadute a più ampio raggio. Questa stessa filantropia potrebbe inoltre rappresentare la “testa di ponte” per risorse finanziarie in grado di sostenere la fase di sviluppo e di messa a regime di queste sperimentazioni sociali. In ultimo, ma non per ultimo, si può annoverare un attore rilevante ma ancora poco strutturato, ovvero le reti tra iniziative di rigenerazione sociale. L’assetto più immediato potrebbe consistere in una confederazione tra simili, unendo i puntini tra le tante progettualità in atto. Ma forse, in una fase di profondo rinnovamento e – al tempo stesso – di nuova domanda di intermediazione sociale, la sfida consiste nell’identificare un diverso elemento di aggregazione capace di restituire la natura del cambiamento sociale che fonda queste iniziative. Da questo punto di vista un approccio aperto all’innovazione su scala locale potrebbe rappresentare quella comunanza capace di sintetizzare senza normalizzare la biodiversità di questi processi.