Il Reddito di cittadinanza (Rdc) ha rappresentato un cambiamento molto significativo per il welfare state del nostro Paese. Nonostante sia una misura che segue un lungo “percorso di avvicinamento” nelle politiche italiane di contrasto alla povertà, in linea di massima iniziato nel 1998 con la sperimentazione del Reddito minimo di inserimento e poi continuato, dopo un salto di un quindicennio, con il Sostegno per l’inclusione attiva e il Reddito di inclusione (Rei), il Rdc ha infatti segnato una svolta significativa nella storia delle politiche di assistenza sociale italiane.

Se da un lato sancisce definitivamente l’orientamento del welfare italiano verso l’universalismo selettivo nel contrasto alla povertà, riprendendo in parte la misura precedente (il Rei)1, rispetto a quest’ultima il Rdc presenta un approccio di natura più workfarista, con conseguente maggiore centralità delle politiche attive del mercato del lavoro. Inoltre il significativo finanziamento della misura – mai si era speso così tanto per un trasferimento monetario di questo genere – può essere letto come un chiaro segnale rispetto alla volontà di contrastare la povertà in maniera efficace.

Ma tali ambizioni si misurano poi con la concreta applicazione del Rdc e con gli aspetti connessi alla complessa portata della sua implementazione.

Allo stato attuale, nonostante siano passati ormai quasi tre anni dalla sua introduzione, l’impianto normativo appare ancora “a maglie troppo larghe”, non chiarendo in modo preciso né l’ordine di priorità rispetto ai numerosi obiettivi della misura indicati in legge, né fornendo strumenti cogenti per una sua applicazione omogenea sul territorio nazionale, lasciando così spazio a margini di discrezionalità attuativa. Pur rappresentando dunque una importante e necessaria riforma del welfare state italiano, alcune parziali revisioni sarebbero necessarie per rendere questo strumento più coerente, anche tramite i decreti attuativi ancora mancanti. In assenza di interventi normativi può infatti emergere il rischio che tale discrezionalità sia orientata e condizionata dalla path dependency delle politiche di contrasto alla povertà italiane, determinando un elemento di distorsione rispetto ai principali elementi di novità del Rdc.

Quali sono gli aspetti poco chiari del Rdc e in che misura sono possibili eventuali correzioni e modifiche che renderebbero questo strumento efficace rispetto ai suoi obiettivi? Per affrontare queste domande, ci concentriamo su due questioni: quella riguardante gli aspetti di condizionalità richiesti per l’accesso alla misura e quella legata alla sua concreta implementazione.

Accesso e contrasto alla povertà: problemi nella fissazione della condizionalità

Nella determinazione della condizionalità per l’accesso al Rdc, due sono i principali problemi che possiamo identificare, entrambi legati a temi politici emersi nell’iter che ha portato all’approvazione del D.L. n. 4/2019: la fissazione delle soglie di accesso e l’esclusione di una parte rilevante dei cittadini immigrati.

La soglia di rischio di povertà (fonte Eurostat) era infatti l’iniziale punto di riferimento e obiettivo politico della proposta di legge Catalfo; da qui la previsione di un importo pari a 780 euro per persona sola (la soglia era infatti pari a circa 9.400 euro annui nel 2014). Tale valore è tuttavia molto alto e una misura che mirasse a “coprirlo” integralmente avrebbe avuto un costo eccessivo sulle finanze pubbliche. Per tale ragione, pur mantenendo l’importo di 780 euro per i nuclei monocomponente, si decise di introdurre diversi requisiti di accesso – descritti in seguito – e una scala di equivalenza meno generosa verso le famiglie numerose, andando così a incidere sull’universalismo del contrasto alla povertà. A quel punto, il target di policy venne “abbassato” dal rischio di povertà alla povertà assoluta di fonte Istat, sebbene questa abbia delle caratteristiche molto diverse dalla dimensione di povertà che è andata infine delineandosi nel Rdc.

I requisiti richiesti

Nello specifico, tra gli altri requisiti, il Rdc prevede quattro distinti requisiti economici di accesso che si basano sul valore ISEE, il valore del reddito familiare equivalente e il valore del patrimonio mobiliare e immobiliare del nucleo familiare. Rispetto alla povertà assoluta, la principale differenza sta nell’adozione di soglie uniche a livello nazionale (differenziate solo per i nuclei composti da soli anziani, ossia quelli a cui la Pensione di Cittadinanza è destinata), che non tengono dunque conto dei diversi livelli di costo della vita nel territorio italiano. Il Rdc prevede invece delle soglie diversificate per chi vive in una casa di proprietà o in affitto. Come risultato di questa imperfetta sovrapposizione, diversi studi hanno mostrato che il tasso di copertura della povertà assoluta da parte del Rdc appaia molto contenuto.

Un altro requisito molto importante è quello che riguarda la residenza in Italia. Per avere diritto al Rdc è infatti necessario essere legalmente residenti in Italia da almeno dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi: si tratta di uno dei requisiti sulla residenza più stringenti dell’Unione Europea. Da quanto emerge dai focus group svolti nei tre Comuni (Milano, Bologna e Palermo) utilizzati per la nostra analisi presentata più estesamente nell’articolo di Politiche Sociali/Social Policies, questo requisito ha modificato, rispetto alla precedente esperienza del Rei, in modo significativo il profilo degli utenti Rdc, che ora hanno una quota molto inferiore di stranieri.

L’implementazione del Rdc: un impianto troppo top-down e lavoristico

Dalla analisi empirica tratta del nostro studio – sia per la parte qualitativa dei focus group sia per la parte di analisi della survey Inapp “Implementazione del Rei e passaggio al Rdc” (che ha coinvolto la quasi totalità dei Centri per l’impiego e degli Ambiti territoriali sociali e un campione rappresentativo dei Servizi sociali dei Comuni) – emergono due principali problemi legati alla implementazione del Rdc. Il primo attiene alla gestione del flusso informativo e di dati necessario per la corretta presa in carico degli utenti e per l’indirizzamento ai Patti per il lavoro o ai Patti per l’inclusione; il secondo riguarda la costruzione e il coinvolgimento di una efficace rete di attori nelle varie fasi della implementazione. Per entrambi gli aspetti i limiti derivano da una impostazione troppo top-down della misura e da una sua eccessiva declinazione in chiave “lavoristica”.

Per quanto attiene alla prima questione, emerge un chiaro limite rispetto alla governance dei dati, sia rispetto alla loro accessibilità da parte degli operatori, che all’adeguatezza nell’attribuzione dei beneficiari ai diversi Patti. Dalla nostra analisi risulta che su circa un milione di prese in carico, in media il 30% dell’indirizzamento iniziale, prodotto dal software gestionale centralizzato, risulti errato: in generale c’è una tendenza a sovrastimare la capacità dei beneficiari di poter siglare un Patto per il lavoro, il che mostra un certo imprinting lavoristico della misura. Ampliando l’orizzonte, l’analisi evidenzia inoltre anche una problematica più generale rispetto ai flussi comunicativi: circa due terzi dei soggetti interessati dall’implementazione dei Rdc, nello specifico Centri per l’impiego e Ambiti territoriali sociali, ritengono che la qualità dei flussi informativi non sia idonea. Questi elementi indicano quanto l’adeguatezza dei flussi informativi rappresenti un tema su cui lavorare.

Quanto al secondo problema identificato, l’impostazione molto top-down del disegno di policy, senza che però ogni singolo aspetto sia ben dettagliato dai (pochi) decreti attuativi, non facilita il coinvolgimento e l’interazione delle varie istituzioni coinvolte nella governance della misura: l’effetto è che la rete di governance multi-livello, decisiva per l’implementazione efficace del Rdc, funziona solo laddove la storia delle politiche locali ha già esperienze sedimentate, come nel caso dell’Emilia Romagna. Anche in questo caso sarebbe opportuno prevedere un maggiore coinvolgimento degli attori, come fatto durante il Rei, per facilitare la loro collaborazione attiva.

Osservazioni conclusive e prospettive di policy

Il confronto tra la definizione di povertà che implicitamente caratterizza il disegno del Rdc (e che dipende dall’insieme dei requisiti di accesso previsti), l’indicatore di povertà assoluta di Istat e quello di rischio di povertà di Eurostat ha messo in luce la significativa distanza che esiste tra di essi e, pertanto, il mancato raggiungimento dell’auspicato universalismo selettivo in senso stretto.

Per esigenze di bilancio pubblico, il disegno del Rdc è stato molto ridimensionato in fase di dibattito politico, cambiando il proprio obiettivo dal contrasto del rischio di povertà al contrasto della povertà assoluta, pur avendo delle caratteristiche molto diverse da essa. Sarebbe dunque auspicabile una parziale revisione del targeting del Rdc, a partire da una modifica delle scale di equivalenza, attualmente eccessivamente “piatta”, così come dall’introduzione di una minore rigidità per gli immigrati.

Per quanto attiene invece all’aspetto della implementazione sarebbe utile una modificazione dell’attuale disegno di policy, tramite opportuni decreti attuativi, con una maggior attenzione al coordinamento e alla collaborazione interistituzionale, in combinazione con un miglior targeting, sia dei potenziali beneficiari che dei relativi percorsi di politiche attive, correggendo quindi l’imprinting eccessivamente lavorista della misura. Inoltre, appare necessario un miglioramento del sistema di flussi informativi, garantendo e favorendo il coinvolgimento attivo di tutti i soggetti istituzionali interessati dalla governance multilivello dei percorsi di inserimento socio-lavorativo.

Tali accorgimenti potrebbero costituire la strada da percorrere anche in termini di contrasto dei futuri, e potenzialmente nefasti, effetti pandemici. Al momento, infatti, la pandemia ha avuto un parziale effetto sul Rdc, provocando la sospensione della condizionalità e il ritardo nell’avvio dei percorsi di inserimento; questo impatto ha probabilmente attutito le differenze territoriali. È ipotizzabile, però, che quando i Patti del lavoro avranno maggiore possibilità di ripartire, le differenze del mercato del lavoro tra le varie zone del Paese e i differenti impatti che la pandemia ha generato rispetto ai profili di lavoratori maggiormente colpiti giocheranno un ruolo significativo nel determinare gli esiti finali della misura.

 


I Policy Highlights di Politiche Sociali /Social Policies

Il presente articolo sintetizza alcuni degli esiti principali di un lavoro pubblicato sul numero 3/2021 di Politiche Sociali/Social Policies, rivista edita dal Mulino e promossa dalla rete ESPAnet-Italia. Per maggiori dettagli e citazioni: Busilacchi, G., Gallo, G. e Luppi, M., Qualcosa è cambiato? I limiti nella implementazione del Reddito di cittadinanza e il vincolo della path dependency, in «Politiche Sociali/Social Policies», 3/2021, pp. 553-578.

 

 

Note

  1. Solo nella sua fase finale (dal luglio 2018) infatti, il Rei, nato come misura di contrasto categoriale alla povertà, è stato esteso a tutti i poveri.