Il 18 gennaio il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Andrea Orlando, e l’economista del lavoro presso la Direzione per l’Occupazione, il Lavoro e gli Affari Sociali dell’OCSE, Andrea Garnero, hanno presentato la Relazione del Gruppo1 di lavoro (istituito con il Decreto Ministeriale n. 126 del 2021) su “Interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa”.

Si tratta di un documento che analizza le cause all’origine della povertà lavorativa, con un focus sull’Italia, e avanza cinque proposte (con annessi specifici obiettivi) per contrastare il fenomeno. Di seguito riportiamo i principali contenuti.

Avere un lavoro non basta per evitare di cadere in povertà

Circa l’11,8% dei lavoratori italiani sono poveri e quello italiano è il dato più marcato degli Stati europei (dove, mediamente, i lavoratori poveri sono circa il 9,2%).

La Relazione degli esperti sottolinea come, in Italia, circa il 25% dei lavoratori percepisca una retribuzione inferiore al 60% della mediana e più di un lavoratore su dieci sia in condizione di povertà (vale a dire che vive in un nucleo familiare il cui reddito netto equivalente è inferiore al 60% della mediana).

Il Covid-19 ha peggiorato la situazione di coloro che, già prima della pandemia, vivevano in condizioni di vulnerabilità. Si pensi, ad esempio, ai lavoratori atipici o irregolari, che a causa della pandemia hanno visto ridursi o azzerarsi il reddito da lavoro. Una condizione emergenziale che ha costretto il Governo a introdurre misure temporanee e integrative, come il Reddito di Emergenza e l’anticipo della Cassa di Integrazione.

Ma chi è il lavoratore povero?

Attualmente non è possibile individuare una definizione univoca del fenomeno e, come noto, questo genera delle complicazioni in ambito istituzionale e politico (nel design degli interventi di contrasto al fenomeno) e statistico (la misurazione del fenomeno). Secondo l’indicatore In-work-poverty adottato dall’Eurostat, il lavoratore povero – working poor – è considerato tale se dichiara di essere stato occupato per un certo numero di mesi (solitamente 7) nell’anno di riferimento e se vive in un nucleo familiare che gode di un reddito equivalente disponibile inferiore alla soglia di povertà stabilita, solitamente il 60% del reddito mediano nazionale.

L’’In-work-poverty considera due dimensioni: una individuale (connessa all’occupazione del singolo individuo) e una familiare (la struttura demografica e la composizione occupazione del nucleo stesso). Il lavoratore povero non si identifica esclusivamente in un lavoratore a basso salario, poiché la bassa retribuzione è una delle cause – ma non la sola – della povertà lavorativa.

Cosa si nasconde quindi dietro la povertà lavorativa? Dietro questo fenomeno, oltre alle crescenti sfide demografiche, ci sono i limiti strutturali del mercato del lavoro: salari stagnanti, l’instabilità delle carriere, l’esplosione del tempo parziale involontario, le debolezze della struttura economica italiana (con l’aumento di lavori atipici) e l’espansione del settore dei servizi a bassa produttività.

Come si manifesta la povertà lavorativa in Italia?

Negli ultimi 15 anni il dato sull’in-work-poverty mostra un notevole aumento in Italia. Nel 2017 i lavoratori poveri (occupati da almeno sette mesi) erano pari al 12,3% (9,4% nel 2006). Se si considera però gli occupati per almeno un mese, questo dato cresce al 13,2% (10,3% nel 2006).

La Relazione degli esperti mette in evidenza almeno sei punti di interesse:

  • I rischi di povertà lavorativa sono strettamente legati alla tipologia contrattuale del lavoratore: circa il 17,1% dei lavoratori sono autonomi (12,1% sono invece dipendenti). Questo dato è più significativo per i lavoratori che abbiano lavorato almeno un mese con contratto part-time (21,6%).
  • I rischi correlati alla componente temporale sono ancora più evidenti quando si prendono in considerazione i lavoratori che sono occupati solo pochi mesi all’anno: al decrescere delle ore e dei mesi lavorati durante l’anno segue l’aumento del rischio di povertà lavorativa. In tal senso, la Relazione mostra come non sia sufficiente lavorare un numero di mesi l’anno (superiore a 1) ma ad essere cruciale è la continuità lavorativa. Il rischio di povertà lavorativa è del 75% per chi lavora 6 mesi l’anno e si riduce al 20% per chi lavora continuativamente nell’anno.
  • Il rischio, in Italia, è altrettanto alto per le famiglie con un unico percettore di reddito. A parità di condizioni tra uomo e donna, la componente femminile è più a rischio di povertà lavorativa, a causa delle restrizioni nel mercato del lavoro. Tuttavia, il numero di uomini in povertà lavorativa è più alto, questo perché le donne ricoprono il ruolo di “seconde percettrici” di reddito. L’incidenza di povertà lavorativa è pari al 22,1% per le famiglie con un solo percettore di reddito e al 7% per le famiglie con due percettori.
  • Tuttavia, quanto alle basse retribuzioni, il rischio è individuale e dipende dalle caratteristiche del mercato del lavoro. La quota di lavoratori “poveri” (o scarsamente retribuiti) è nettamente più alta tra le donne (il 27,8%) che fra gli uomini (16,5%) e, tale quota, resta più elevata tra coloro che lavorano a tempo parziale (53,5%).
  • L’intervento redistributivo attenua i rischi di bassa retribuzione; tuttavia, questo è valido solo per i lavoratori dipendenti che versano una minore aliquota contributiva rispetto agli autonomi e sono, inoltre, gli unici a beneficiare degli ammortizzatori sociali. Per citare un dato, nel caso dei dipendenti il rischio di bassa retribuzione scende dal 24,5% al 19,7% quando si considerano imposte e contributi, mentre per gli autonomi sale dal 23% al 25,1%.

Basse retribuzioni: la stasi dei salari e la crescita del lavoro atipico

La Relazione offre inoltre uno sguardo attento agli esiti individuali nel mercato del lavoro. Per farlo, gli esperti analizzano i dati del campione LOSAI-INPS2, prendendo in considerazione la retribuzione lorda annua e settimanale. Lo studio rivela come, in Italia, persista una stasi dei salari e sia in crescita il lavoro atipico: dinamiche che comportano, anche nel lavoro dipendente privato, una crescita sostenuta del rischio di bassa retribuzione (circa 6 punti percentuali se si guarda alla retribuzioni annuali, dal 16,1% al 22,1%).

Tali dati sono in decrescita per i lavoratori a tempo pieno (dal 20,7% al 18,4%). I rischi di basse retribuzioni sono variabili in base al settore di attività e in virtù del contratto collettivo adottato, delle forme contrattuali non standard (a titolo esemplificativo, circa il 64% dei working poor lavorano in alberghi e ristoranti, sol il 4,8% nel settore finanziario).

Ne consegue che i fattori che spiegano maggiormente i differenziali nel rischio di povertà lavorativa dovuta a basse retribuzioni sono le forme contrattuali e, a seguire, i settori produttivi.

La povertà è un concatenamento di processi

Nella Relazione, il Gruppo di Lavoro immagina la povertà e la disuguaglianza sociale come una catena composta da tre anelli: i redditi individuali da lavoro, i redditi familiari di mercato e i redditi familiari disponibili.

  • I redditi individuali da lavoro includono la paga oraria, le ore lavorate nella settimana e i mesi lavorati durante l’anno: gli individui offrono il loro lavoro sul mercato del lavoro e dal contratto dipendono salario e durata dell’impiego.
  • I redditi familiari di mercato riguardano invece la composizione del nucleo e, quindi, il numero di percettori all’interno di esso (il numero di occupati e le retribuzioni di ciascun componente) e da altri eventuali redditi di mercato (le rendite finanziarie).
  • I redditi familiari disponibili dipendono dall’intervento diretto e redistributivo dello Stato; si tratta dei redditi dopo le imposte (diretta e indiretta) e dei trasferimenti pubblici (in moneta o in natura).

L’intrappolamento in condizioni di povertà

Il rischio di basso salario perdura nel tempo e mostra caratteri di forte persistenza: la quota di quanti, una volta caduti in situazioni di povertà lavorativa, vi rimangono è rilevante (circa il 50% prima della crisi e oltre il 60% durante la crisi economica).

Quest’ultima informazione, riguardo la persistenza in tale condizioni di povertà, è un punto rilevante. Infatti, studi hanno evidenziato come tale inerzia temporale sia legata ad attributi e condizioni strutturali dell’individuo e della famiglia. Questo, in termini di politiche, significa che le misure di sostegno al reddito sono funzionali ad alleviare tali situazioni di povertà ma agiscono in prospettiva temporanea e non sono sufficienti a ridurre i rischi di individui e famiglie di permanere in tali situazioni.

A tal proposito, le misure di policy necessarie dovranno puntare a migliorare le opportunità lavorativa e favorire l’inclusione del mercato del lavoro dei membri inattivi e/o disoccupati del nucleo familiare.

L’interazione tra le politiche e gli anelli di creazione di povertà lavorativa

Il Gruppo di lavoro presenta le politiche che, se messe in sinergia tra loro, possano affrontare i tre anelli di creazione della povertà lavorativa richiamati precedentemente (Figura 1). Tali sinergie tra politiche e anelli di creazione della povertà si compongono così come annunciato di seguito e da tali considerazioni, come si vedrà, scaturiscono le cinque proposte del Gruppo di lavoro.

Con riferimento i redditi individuali da lavoro, secondo il Gruppo di esperti sono necessarie le politiche pre-distributive, capaci di influenzare le dotazioni e i comportamenti dei soggetti del mercato del lavoro (per citarne alcune, le politiche macroeconomiche e industriali per influenzare la composizione strutturale del mercato del lavoro; politiche di istruzione e formazione per aumentare l’occupabilità, ecc.). Il secondo anello della catena, i redditi familiari di mercato, è affrontabile attraverso misure di stimolo della domanda e dell’offerta di lavoro.

Si tratta di misure volte ad aumentare il numero di percettori di redditi e, in particolare, misure specifiche per la popolazione non o sotto-occupata. Infine, quanto ai redditi familiari disponibili, si concretizza per via diretta attraverso l’intervento redistributivo dello Stato, per mezzo di imposte o trasferimenti pubblici. In Italia, le principali politiche redistributive e di contrasto alla povertà sono il Reddito di Cittadinanza e l’Assegno Unico Familiare che, in ottica prospettica, potranno migliorare i rispettivi meccanismi di integrazione.

Figura 1. Le politiche per affrontare gli anelli di creazione di povertà – Fonte: elaborazione del Gruppo di Lavoro, p. 20

Le proposte del Gruppo di lavoro per contrastare la povertà lavorativa

Nella formulazione delle proposte, il Gruppo di Lavoro si concentra sulle misure macroeconomiche volte a sostenere i redditi individuali e familiari. Ne derivano cinque proposte, che vanno considerate nel complesso, di seguito elencate. Le prime due fanno capo a misure pre-distributive, la terza a quelle redistributive mentre le ultime due sono proposte di tipo “trasversale”. Di seguito le proposte sono presentate in maniera sintetica (una versione sintetica delle proposte è anche presente a questo link) e si invita ad approfondire le questioni citate consultando direttamente la Relazione (disponibile qui).

  1. Garantire minimi salari. Nel caso Italiano, si prospettano due opzioni principali: da un lato l’estensione dell’applicazione dei contratti collettivi principali a tutti i lavoratori del settore (previa ridefinizione dei contratti collettivi principali e del settore di riferimento) e dall’altro un salario minimo per legge (tematica su cui il Ministro Orlando si è recentemente espresso a più riprese).
  2. Aumentare il rispetto dei minimi salari attraverso una più efficace vigilanza documentale. Questa proposta, correlata e conseguente alla prima, vuole assicurare che il salario minimo sia poi rispettato. Si tratta dunque di aumentare la conformità – e, dunque, l’enforcement – dei livelli retributivi erogati. In questo senso, un’efficace vigilanza può realizzarsi solo attraverso un miglioramento delle informazioni disponibili e in possesso dalle amministrazioni. Le istituzioni devono intervenire affinché vengano realizzati i controlli sui livelli retributivi e per contrastare il crescente fenomeno dell’abuso di basse retribuzioni: a questo scopo sarebbe necessario disporre di indicatori di rischio a livello di CCNL/impresa per permettere un confronto sulle anomalie riscontrate.
  3. Introdurre un trasferimento rivolto esclusivamente a chi percepisce redditi da lavoro (in-work benefit). In Italia non è attualmente presente uno strumento specifico per integrare i redditi da lavoro (in inglese, in-work benefit). Questo permetterebbe di aiutare chi si trova in condizioni di vulnerabilità economica, pur lavorando, impattando, così, positivamente anche sull’occupazione regolare.
  4. Incentivare il rispetto delle norme da parte delle aziende e aumentare la consapevolezza di lavoratori e imprese. Tre sono opzioni principali: incentivi per un comportamento virtuoso da parte delle imprese, campagne informative per i lavoratori e favorire la ricerca e l’accesso ai dati amministrativi. Rispetto alla prima opzione, si tratta di forme di accreditamento a fronte di comportamenti consapevoli e virtuosi da parte delle imprese. In altri paesi europei, ad esempio, tali trasferimenti si rivolgono a imprese che si impegnano a corrispondere retribuzioni in linea con i minimi salariali o uguali per uomini e donne. Iniziative di questo tipo sono attualmente presenti nel Regno Unito (“Living Wage”) e in Emilia Romagna (“Working yet poor”). La seconda opzione riguarda invece uno sforzo di trasparenza, volto ad accrescere la consapevolezza tra i lavoratori. Infine, la terza opzione invita a favorire la ricerca accademica in materia e l’accesso ai dati amministrativi, per aumentare la consapevolezza rispetto al problema del lavoro povero e misurare l’effetto che strumenti diversi possono avere nel contrasto al fenomeno. I dati, raccolti dall’ Amministrazioni pubbliche nell’espletamento delle loro funzioni ordinarie, possono essere utilizzati per studiare la rilevanza di certi fenomeni e il ruolo delle politiche per attenuarli.
  5. Promuovere una revisione dell’indicatore europeo di povertà lavorativa a livello di Unione Europea. Il Gruppo di lavoro invita il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali a promuovere una revisione dell’indicatore di povertà lavorativa che si faccia carico di estendere la platea di riferimento a tutti coloro che sono occupati almeno una volta durante l’anno e di prendere in considerazione in maniera più strutturale i redditi da lavoro degli individui (oltre che del reddito equivalente).

Quale sinergia tra le proposte di policy?

La Relazione, infine, sottolinea come la strategia di lotta alla povertà lavorativa richieda necessariamente che siano resi operativi una molteplicità strumenti per provare a contrastare efficacemente il fenomeno. Le proposte, come mostra la Figura 2, vanno considerate nel loro insieme. Le proposte pre-distributive, redistributive e quelle trasversali hanno un effetto sui redditi individuali da lavoro e sul comportamento delle imprese e dei lavoratori solo se attuate contestualmente.

Figura 2. Sinergie tra le proposte di policy e i loro effetti sui tre anelli della “catena” di creazione di povertà e disuguaglianza – Fonte: elaborazione del Gruppo di lavoro, p. 39

 

Il fenomeno dei working poor rappresenta dunque una sfida complessa e di rilevanza per il nostro Paese. La Relazione ivi presentata dimostra come per affrontarla sia necessario mettere in campo le misure di policy adeguate. Consapevoli della centralità del fenomeno, del tema si sta occupando anche il gruppo di lavoro di Secondo Welfare. Recentemente, infatti, abbiamo dedicato al fenomeno un capitolo (il sesto) del Volume “Platform welfare. Nuove logiche per innovare i servizi locali”. In ottemperanza a quanto presentato dalla Relazione oggetto di questo articolo, il Capitolo (elaborato da Chiara Agostini e Valeria De Tommaso) ripercorre le cause della povertà lavorativa e offre alcuni spunti riguardo il contrasto del fenomeno a livello locale, con il pieno coinvolgimento degli attori territoriali.

Per approfondire

Note

  1. Fanno parte del Gruppo di lavoro Andrea Garnero (economista del lavoro all’OCSE), Silvia Ciucciovino (professoressa ordinaria di Diritto del lavoro e consigliera esperta presso il CNEL), Romolo de Camillis (Direttore generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), Mariella Magnani (professoressa emerita di Diritto del lavoro all’Università di Pavia), Paolo Naticchioni (economista presso la Direzione Studi e Ricerche dell’INPS e professore associato all’Università Roma Tre), Michele Raitano (professore ordinario di Politica economica alla Sapienza Università di Roma), Stefani Scherer (professoressa ordinaria di Sociologia all’Università di Trento), Emanuela Struffolino (ricercatrice di Sociologia economica all’Università di Milano).
  2. LOSAI Inps (Longitudinal Sample INPS) è il campione longitudinale dell’INPS, contenente la storia lavorativa di tutti gli iscritti. Il campionamento è effettuato in base alla data di nascita (1 e 9 di ciascun mese). Lo scopo è valutare l’efficacia delle politiche del lavoro e analizzare il mercato del lavoro.