Nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) le risorse dedicate a istruzione e ricerca ammontano a 30,88 miliardi di euro.

Da un lato queste saranno impegnate per investimenti dedicati all’edilizia scolastica e al potenziamento delle strutture, alla riduzione del tasso di abbandono scolastico, e al miglioramento della transizione tra scuola e istruzione terziaria (inclusi gli ITS, gli Istituti Tecnici Superiori). Dall’altro andranno verso riforme nel campo del reclutamento dei docenti, dell’offerta di formazione tecnica e professionale, dell’organizzazione del sistema scolastico e dell’orientamento.

Quali sono opportunità e rischi che derivano da quanto attualmente previsto dal PNRR, in particolare con riferimento alla riforma del sistema di reclutamento degli insegnanti e agli investimenti nell’edilizia scolastica? Ne abbiamo discusso con Andrea Gavosto, Direttore della Fondazione Agnelli, nell’ambito della ricerca “Diritto all’istruzione, disuguaglianze educative” che Secondo Welfare sta realizzando per ActionAid.

Quali sono i principali limiti dell’attuale sistema di reclutamento degli insegnanti e quali le prospettive che apre il PNRR?

Le indagini Talis dell’OCSE ci dicono che i nostri docenti si sentono preparati sui contenuti disciplinari ma non sugli strumenti didattici. In Italia c’è ancora la visione “gentiliana” (riferito alla riforma della scuola di Giovani Gentile del 1923, ndr per la quale si presume che se si conoscono le cose si sanno anche insegnare, ma chiaramente non è così. Infatti, nel resto d’Europa per i nuovi insegnanti è prevista una formazione specifica sulle modalità didattiche e i docenti, ancor prima di diventare tali, si formano attraverso i tirocini.

Nel nostro Paese invece la formazione relativa alle tecniche di insegnamento non è parte del percorso che porta i docenti in cattedra. Attualmente, per insegnare nelle scuole di secondo grado (inferiori e superiori) l’unico requisito, oltre alla laurea disciplinare, è il conseguimento di 24 CFU in materie psicologiche-pedagogiche-sociali. Di fatto quindi i neo-docenti arrivano nelle scuole senza una formazione pedagogica, né metodologica, né pratica.

In Italia c’è ancora la visione “gentiliana” per la quale si presume che se si conoscono le cose si sanno anche insegnare, ma chiaramente non è così

Il modello delineato dal PNRR è quello di una “formazione in servizio”; il primo step consiste quindi un concorso pubblico per titoli e anzianità, chi lo supera ha un anno di prova in cui, da un lato, insegna e, dall’altro, frequenta corsi volti a fornire conoscenze pedagogiche e didattiche. Alla fine di questo anno c’è un doppio passaggio che riguarda il giudizio della scuola su com’è andato l’anno di prova e la verifica di una commissione esterna. Io credo invece che la formazione dovrebbe essere fatta prima che i docenti diventino tali e non contestualmente

Cosa possiamo aspettarci da un sistema di questo tipo?

Io sono scettico, secondo me le verifiche a posteriori raramente garantiscono una qualità elevata. Sappiamo da esperienza passata che una volta che si entra, anche se si è inadeguati, difficilmente si viene mandati via. Inoltre, un sistema di questo tipo richiede una grande capacità di programmazione: le università dovranno infatti fornire i corsi in base a una stima del fabbisogno di insegnanti per ciascuna disciplina. Per un Paese che ha una capacità di programmazione molto bassa come il nostro è davvero difficile immaginare un sistema di questo tipo funzioni.

In sostanza, la proposta di riforma comporta rischi: da un lato, la verifica a posteriori delle competenze probabilmente non è il modo migliore per assicurare la qualità, dall’altro, richiede una capacità di programmazione non ovvia e che coinvolge anche le università.

Quali sono invece le opportunità che si aprono sul fronte dell’edilizia scolastica e quali invece (se ci sono) i rischi?

Le risorse destinate all’edilizia scolastica rappresentano una grande opportunità; in Italia gli edifici scolastici hanno in media 53 anni e ci sono quindi problemi di sicurezza e di sostenibilità energetica ma soprattutto (e di questo purtroppo si parla poco nel PNRR) riflettono un modello didattico ormai superato. Infatti, la disposizione degli spazi consente solo un’impostazione “trasmissiva” della didattica.

In Italia gli edifici scolastici hanno in media 53 anni e ci sono quindi problemi di sicurezza e di sostenibilità energetica ma soprattutto riflettono un modello didattico ormai superato

Gli insegnanti dovrebbero invece avere a disposizione ambienti multifunzionali in cui poter fare diversi tipi di lezione (quindi anche laboratoriali) e in cui siano presenti spazi per i lavori di gruppo e per il lavoro individuale. Il rischio che vedo è che gli interventi di edilizia scolastica siano realizzati senza un’idea chiara della funzione didattica della scuola. Se le cose andranno così, ci porteremo avanti per i prossimi trent’anni strutture che dal punto di vista didattico sono obsolete.

Come mai c’è il rischio che gli interventi siano realizzati non tenendo conto della funzione didattica delle strutture scolastiche?

Perchè ai bandi dovranno necessariamente rispondere gli enti proprietari, quindi i Comuni (per le materne, le primarie e le medie) e le Province e le Città metropolitane (per le scuole superiori). Non si sa ancora se i bandi saranno pubblicati dal Ministero o dalle Regioni, ma è certo che sarà l’ente locale a candidarsi per il rifacimento delle scuole. Le scuole infatti, non essendo proprietarie degli edifici, in questa fase non hanno voce in capitolo e questo è un problema dal punto di vista didattico. A norme vigenti la scuola è completamente tagliata fuori. Sarebbe invece auspicabile che almeno il piano preliminare di intervento, attraverso cui i progetti saranno assegnati alle ditte, sia co-firmato dal dirigente scolastico.

Volendo essere ottimisti, non possiamo immaginare che, almeno in alcuni contesti virtuosi, possano essere realizzati dei percorsi partecipati coinvolgendo anche gli studenti, gli insegnanti e le famiglie?

Esperienze di questo tipo esistono. Ad esempio nell’ambito del progetto “Torino fa scuola”, che prevedeva la ristrutturazione di due istituti scolastici, come Fondazione Agnelli abbiamo passato quasi un anno a confrontarci con docenti, studenti e genitori sulle loro esigenze e abbiamo realizzato quindi una progettazione partecipata.

Tuttavia, nell’ambito del PNRR temo che un modello di questo tipo non sia replicabile poiché i tempi previsti sono strettissimi. I cantieri devono partire nel 2023 e tutto deve essere finito e rendicontato entro il 2026. Per come funzionano queste cose sono tempi davvero troppo brevi; solo per passare dalla vincita del bando alla definizione di un progetto esecutivo può essere necessario un anno di tempo. Il rischio di tutta questa partita è quindi ritrovarci solo con qualche pannello fotovoltaico in più. Se andrà effettivamente così avremo perso una grande occasione.

Un’ultima domanda. è noto che l’Italia ha una certa difficoltà ad accedere e utilizzare i fondi strutturali europei. C’è il rischio che questo si verifichi anche con le risorse del PNRR?

Purtroppo è ragionevole pensare che questo problema esploda con il PNRR: il Governo si è impegnato a spendere il 40% delle risorse a favore delle Regioni meridionali, ma la questione è molto complessa. C’è un meccanismo ovvio di selezione avversa: le scuole che hanno maggiore probabilità di partecipare e vincere i bandi non sono quelle che tipicamente ne hanno più bisogno, in quanto sono quelle più preparate e che hanno maggiori capacità di progettazione. Al contrario, scuole che hanno più bisogno di risorse non sono in grado di ottenerle.

Le scuole che hanno maggiore probabilità di partecipare e vincere i bandi non sono quelle che tipicamente ne hanno più bisogno

C’è quindi il rischio che non si riesca a investire il 40% delle risorse al Sud perché molte delle scuole in questi territori non saranno in grado di accedere ai fondi. È allora necessario agire su due fronti: da un lato, realizzare erogazioni maggiori per scuole in difficoltà (soprattutto al Sud), dall’altro, prevedere un affiancamento a queste scuole per permettere loro di acquisire capacità progettuali. In generale, quindi, per le scuole critiche non basta mandare soldi ma serve anche affiancarle in maniera che riescano a riceverli e a spenderli in maniera adeguata.

Volendo chiudere con una nota positiva…?

Siamo comunque di fronte a una grande opportunità sia per l’entità degli investimenti previsti, sia per gli impegni di riforma che il Governo ha assunto nei confronti dell’Unione Europea. Non la dobbiamo sprecare.

 


#DisuguaglianzeEducative

Questo approfondimento è stato realizzato nell’ambito della ricerca “Diritto all’istruzione, disuguaglianze educative e partecipazione” che Secondo Welfare sta realizzando per ActionAid.